È di pochi giorni fa la notizia che, in seno all’ultima riunione del G7, si è raggiunto un accordo per la futura introduzione di una tassazione dei proventi delle multinazionali realizzati in paesi diversi da quello dove hanno la sede.
Il raggiungimento da parte dei G7 di una prima intesa sull’introduzione di un sistema di tassazione dei proventi delle multinazionali nei paesi in cui viene realizzato il relativo profitto è stato determinato dall’ormai impellente esigenza politica di rendere più equa la tassazione delle cosiddette “mega corporation”, in particolare quelle del settore “high tech”, il cui modello di business è caratterizzato da fatturati e margini di profittabilità molto più elevati rispetto alla media dei settori industriali più tradizionali e della maggior facilità, da un punto di vista operativo, di allocare la propria sede in paesi con regime di tassazione particolarmente favorevole, riuscendo, così, a beneficiare di tale regime per i profitti realizzati dalla vendita dei propri prodotti o servizi in tutti i paesi del mondo.
Per rispondere in maniera efficace alla suddetta esigenza di equità fiscale, si è pensato di neutralizzare, o almeno diminuire, il suddetto vantaggio fiscale, operando una sorta di tassazione dei profitti “alla fonte”, tassando gli utili realizzati nei singoli paesi con una stessa aliquota minima ed attribuendo l’introito di tale tassazione a ciascun paese interessato in proporzione al profitto ivi realizzato.
Secondo quanto riportato dalla stampa, l’accordo prevederebbe, per tutte le multinazionali con fatturati superiori ad un determinato ammontare, l’imposizione di una tassa con un’aliquota minima di “almeno il 15%” e l’intenzione di tassare il 20% della quota eccedente il 10% dei profitti nei Paesi in cui vengono realizzati. In tal modo si attenuerebbe l’impatto di tale sistema di tassazione sulle aziende che operano nei settori industriali caratterizzati da una marginalità più bassa.
Se le premesse dell’intesa verranno mantenute in sede di attuazione, la nuova imposizione si applicherà anche alle multinazionali dello shipping. Si tratterà di una vera e propria rivoluzione fiscale per il mondo dello shipping, che, storicamente, ha sempre beneficiato di regimi fiscali di sostanziale esenzione, sia mediante la scelta della “bandiera” delle navi più conveniente, sia mediante l’allocazione delle sedi delle compagnie armatoriali nei paesi con fiscalità più favorevole.
Al momento è ancora difficile valutare il possibile impatto di una tale rivoluzione sui conti delle grandi compagnie armatoriali e sul settore dello shipping in generale. Quello che si può intravedere fin da ora è un potenziale fattore di criticità, ravvisabile nella forte variabilità dei profitti delle compagnie armatoriali operanti nei vari settori merci (containers, tankers e bulk), che vedono l’alternarsi di ribassi e rialzi dei noli in brevi periodi di tempo ed in modo spesso imprevedibile. È evidente che il sistema di tassazione disegnato dal G7 andrebbe ad incidere sui profitti realizzati nei periodi più favorevoli, sottraendo alle compagnie una fetta del “polmone finanziario” necessario a superare i periodi negativi.
Si profila, quindi, la futura necessità per le grandi shipping company di una pianificazione finanziaria agile, che consenta di attenuare, tramite azioni tempestive, l’impatto della tassazione sui profitti realizzati nei periodi di mercato favorevoli.
Un’ulteriore possibile conseguenza del regime di tassazione disegnato dal G7 potrebbe essere quella di funzionare da fattore di riequilibrio fra le grandi compagnie e quelle più piccole, che, non raggiungendo le soglie di fatturato che determineranno l’imposizione, ne rimarrebbero esenti.
Resta, ora, la parte più ardua e complessa del compito, ovvero quella di tradurre l’intesa del G7 in un sistema di tassazione che possa essere accettato ed attuato in maniera funzionale ed equa a livello mondiale.