L’ordinamento europeo impone – con il Regolamento 1315 del 2013 ma soprattutto con gli articoli 170 e seguenti del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea – non solo di realizzare tempestivamente le infrastrutture di coesione ma anche di avviare i traffici per rendere competitivo il Paese. Costruire cattedrali nel deserto non corrisponde allo spirito dei principi europei. Chi se ne occupa sa bene che le troppe infrastrutture, decise magari in nome della concorrenza o semplicemente per l’impossibilità di scegliere in presenza dei campanilismi locali, uccidono la politica dei trasporti e la stessa competitività del Paese. Per intenderci, quindici/venticinque/trentacinque piccoli porti – tutti lontanissimi dagli standard internazionali quanto a volumi di traffico, impiego della ferrovia, idoneità a ricevere navi di grandi dimensioni ed efficienza – non funzionano proprio perché non sono competitivi sulle direttrici internazionali ed europee rispetto ai porti del Nord Europa.
L’Italia deve quindi essere in grado di sviluppare una vera politica dei trasporti, soprattutto se vuole provare a dare un senso effettivo (assicurandone l’equilibrio) agli investimenti pubblici per il terzo valico, il Brennero, la Pontebbana e forse la Torino-Lione. Occorre pertanto scegliere i porti/retroporti corridoio in concorrenza con il Nord Europa dove andare a concentrare i traffici ferroviari e marittimi che impegnano le direttrici europee. Non vi è dubbio che, pensando alle norme europee che presidiano la coesione in chiave di effettività – se si vogliono sfruttare le tre direttrici Terzo Valico-Loetschberg-Monte Ceneri-Gottardo (corridoio TEN-T Reno-Alpi), Brennero (corridoio TEN-T Scandinavo-Mediterraneo) e Trieste/Koper-Koralm-Semmering (corridoio TEN-T Baltico-Adriatico) – l’offerta non può che riguardare uno o due gateway porto/retroporto sui quali investire non soltanto in infrastrutture ma specialmente in misure di promozione dei traffici. Si tratta di sceglierli con grande attenzione e con un metodo scientifico, guardando non solo alle infrastrutture e agli attuali volumi di traffico ma anche a una serie di altri fattori, come ad esempio l’idoneità e la volontà dei territori ad accettare una sfida impostata su efficienza e concorrenza.
Le importanti risorse già stanziate per il Terzo valico (e quelle investite dalla Svizzera su Gottardo, Loetschberg e Monte Ceneri) imporrebbero ragionevolmente di far sì che Genova, Savona e La Spezia, sostenuti da un retroporto adeguato, diventino parte integrante di un unico sistema (definizione una volta tanto giusta anche in senso tecnico giuridico) in grado di muovere 10-15 milioni di TEU all’anno così come navi di grandi dimensioni in virtù dell’alleanza fra ferrovia e traffici (esemplare in tal senso è il lavoro di Mercitalia sul corridoio del Gottardo, in alleanza con gli svizzeri). Occorre però verificare se in concreto a Genova davvero prevalga la spinta ai traffici internazionali o non invece un disegno di politica dei traffici (meno incisiva in termini di numeri) che si attesti sul mercato del Nord Ovest del Paese. Quest’ultimo orientamento sembrerebbe desumersi dalla lettura delle stime di traffico redatte dall’Autorità di sistema portuale competente, che oltretutto parrebbero non giustificare il Terzo valico in termini di analisi costi/benefici. Se Genova mancasse all’appuntamento, a questo punto Livorno (assieme allo scalo di La Spezia) potrebbe giocare un ruolo importante, integrando le proprie infrastrutture e supportando insieme il Gottardo e il Brennero. Ne risulterebbe un sistema da 5-6 milioni di TEU a regime, da integrare con le direttrici verticali. Occorrono però alleanze chiare e di prospettiva.
Quanto a Trieste, ha la mentalità per svolgere nel Nord Est la funzione storica di porto internazionale e libero come previsto nell’Allegato VIII del Trattato di pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate (Parigi, 10 febbraio 1947). Questo scalo portuale, però, non solo parte da numeri non significativi nel traffico container ma necessita anche di una massiccia integrazione infrastrutturale ferroviaria (mancano le tratte verso Monfalcone e Koper) e terminalistica. Inoltre l’Alto Adriatico è oggi il porto di Capodistria: null’altro che un pezzo del porto di Trieste molto efficiente e competitivo destinato a rafforzarsi con la costruzione del collegamento con Divaca.
Resta da fare una riflessione sui vari porti del Mezzogiorno, che non accennano a giustificarsi malgrado le risorse impiegate. E qui, per chiarezza, ha forse senso domandarsi, con la diligenza del buon padre di famiglia, se continuare a mettere risorse pubbliche sui porti del Sud (senza un comprovato piano industriale e di traffico redatto dal mercato) oppure consentire ai porti del Nord (dai quali provengono pressoché tutte le risorse prodotte dai traffici) di svolgere un ruolo trainante a favore dell’intera portualità italiana. L’economia del Mezzogiorno va ovviamente rilanciata, occorre però capire se investire su una logistica di corridoio sia una soluzione praticabile dal punto di vista economico.
Per essere competitivi e recuperare il tempo perduto i porti gateway dovranno essere molto più efficienti. Occorre pertanto superare norme antiquate che, malgrado le sentenze della Corte europea, neppure il Decreto legislativo n. 169 del 2016 ha davvero rimosso. Vanno quindi rimosse le barriere di accesso (a partire dall’articolo 16 della Legge n. 84 del 1994) che non siano davvero funzionali alla sicurezza e al funzionamento del mercato (cioè praticamente tutte) e viceversa vanno promossi strumenti – anche fiscali e tariffari – che favoriscano alleanze di traffico con i pochissimi operatori che operano sui corridoi. Un lavoro molto complesso che non è mai neppure iniziato.
La recente notizia della possibile apertura di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea a carico delle Authority di sistema portuale (accusate dalla Direzione generale della Concorrenza di non pagare le tasse per le attività da esse svolte nell’ambito delle loro funzioni di regolazione) costringe inoltre a scelte precise sulla natura della loro governance. O vengono rafforzate come ente pubblico non economico che non solo rispetta gli indirizzi ma attua le scelte del Governo (e quindi non beneficia dei canoni demaniali che riscuote per conto dello Stato) oppure si decide di passare a un modello in cui i porti sono gestiti da imprese pubbliche in concorrenza tra loro. C’è chi sostiene che questa seconda soluzione imponga la collocazione della funzione di regolazione in capo a un soggetto diverso dall’Autorità portuale, che sarebbe quindi orientata alla promozione del sistema portuale. Ma di questo vi è da dubitare se è vero che oggi persino Anas spa non è (ancora) considerata impresa ex art. 101 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea.
La “cura del ferro” fortemente voluta da Graziano Delrio va incentivata con l’obiettivo di conseguire entro il 2020 un’equa ripartizione del traffico fra gomma e ferro. Da una parte vanno tuttavia ristrutturati gli incentivi all’autotrasporto (allo scopo di promuovere la ferrovia sulle distanze medio-lunghe), dall’altra è invece inevitabile il ricorso al servizio di interesse economico generale per quelle tratte (come le Alpi e l’Appennino) dove la tutela dell’ambiente impone misure drastiche. Ancora una volta il modello svizzero pare il più proficuo.
La Belt and Road è davvero una opportunità da cogliere se sintonica con le scelte di politica dei trasporti nazionali ed europee. I progressi che il nostro Paese deve comunque compiere, così come le risorse che deve impiegare per integrare e rendere efficienti le sue reti internazionali, possono materializzarsi anche in virtù dell’intesa con la Cina (ma anche con l’India). Sotto questo profilo la “Via della seta” coincide con la pianificazione europea, essendo poco immaginabile che Pechino indirizzi risorse verso operazioni che non siano funzionali a traffici significativi (nel nostro caso il corridoio del Gottardo, l’unico a essere completato e in grado di servire importanti volumi). Un’alleanza con Ferrovie dello Stato e magari con Sbb e Hupac nel campo della logistica, la collaborazione con gruppi nazionali e con Anas nel campo delle autostrade e degli aeroporti e perfino l’intesa nella ricerca (come quella avviata dal Politecnico di Milano con l’Università di Tsinghua) sono esempi positivi di un coordinamento “sano” che non mette a rischio la sovranità del Paese.
Come si vede, una riforma dell’organizzazione dei trasporti è davvero molto importante. In primo luogo il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti non deve essere solo un dicastero di spesa ma una moderna agenzia che promuove misure di politica economica, investimenti (possibilmente privati), alleanze e competitività. In secondo luogo occorre mettere mano alla regolazione: una funzione essenziale per assicurare il level playing field nel mercato, imposta dall’ordinamento europeo, oggi frazionata fra una molteplicità di enti spesso in conflitto fra loro e addirittura con il governo centrale.