Il mercato del trasporto marittimo è in continua evoluzione. Non ci sono certezze all’orizzonte. Lo Tsunami dei dazi si è abbattuto sul mondo intero, con ripercussioni evidenti sulle Borse, e non soltanto su quelle.
“Anche se la guerra commerciale rimanesse limitata soltanto a Stati Uniti e Cina, ci sarebbero comunque delle conseguenze a catena globale” afferma a Port News l’analista di MDS Transmodal, Antonella Teodoro. “Ma l’entità e la natura di tali ricadute andrebbero inquadrate alla luce delle possibili reazioni dei Paesi colpiti dalle tariffe reciproche, e della capacità delle aziende di riadattare le proprie catene di approvigionamento alle mutate condizioni commerciali” aggiunge.
“Il rischio, in questi casi, è quello di dare una lettura troppo semplificata dei fenomeni in atto” precisa. “Molti prodotti esportati dalla Cina verso gli USA includono ad esempio beni intermedi importati da altri Paesi, come Corea del Sud, Giappone, Germania. Pertanto, i dazi e le barriere commerciali danneggiano non soltanto il Paese asiatico e quello statunitense, ma anche i fornitori terzi”.
La trade war 2.0 potrebbe da questo punto di vista ridefinire i flussi commerciali, più di quanto non abbia fatto la precedente guerra commerciale.
“A dispetto dei dazi statunitensi applicati dal 2018, la Cina è rimasta in questi anni il principale partner degli USA. In vent’anni, dal 2006 ad oggi, il Paese asiatico ha visto praticamente raddoppiare la capacità offerta dalle portacontainer allocate dalle compagnie di navigazione nelle spedizioni via mare verso gli USA, da 16 a 30 milioni di TEU. Se ne deduce che l’imprenditoria statunitense è ancora fortemente dipendente dalla produzione cinese”.
La verità è che in questo lasso di tempo quasi tutti i principali partner commerciali statunitensi hanno visto aumentare la propria capacità di esportare merce containerizzata verso gli Stati Uniti. “I flussi commerciali hanno preso direzioni diverse, andando ad avvantaggiare ad esempio paesi come il Vietnam e il Messico, che si sono costituiti come basi di nearshoring della Cina, oppure Panama o Taiwan, che si sono affermati come hub strategici di transhipment”.
Insomma, “i dati suggeriscono che i dazi potrebbero aver rimodellato le scelte di routing e approvvigionamento della catena di approvvigionamento, ma non hanno ridotto la domanda complessiva di capacità di carico in entrata dall’Asia e dalle regioni limitrofe” .
Ora il quadro è cambiato. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di tariffe molto più elevate rispetto a quelle precedenti, anche se allo stato attuale la pausa per 90 giorni nell’applicazione dei dazi ha riportato i livelli a una base del 10% per tutti, con l’esclusione della Cina.
“L’aumento del costo delle merci importate dovuto ai dazi doganali rallenterà sicuramente la domanda, portando a una riduzione della capacità di carico dei container programmati da molti paesi” è la previsione dell’esperta analista di mercato.
Le strategie di medio periodo spingeranno verso una diversificazione delle catene di fornitura. “Le aziende statunitensi tenteranno sicuramente di approvigionarsi da paesi come il Vietnam, il Messico, l’India e l’Indonesia, con l’obiettivo di ridurre l’impatto delle nuove tariffe daziarie”.
Per la Teodoro “si tratta di una strada obbligata, tanto più percorribile quanti maggiori sono le possibilità che con alcuni di queste nazioni Trump riesca a raggiungere degli accordi che favoriscano l’abbattimento delle barriere commerciali”.
Il Vietnam, in particolare, sembra disposto a cedere su diversi fronti pur di assicurarsi l’accesso al mercato americano. Il Paese è stato duramente colpito dai nuovi dazi, essendo stato inizialmente tassato con una tariffa del 46% (ora provvisoriamente riportata al 10% per effetto della pausa dei 90 giorni), ma potrebbe riuscire a spuntare a Trump un accordo vantaggioso, sia perché è oggi la base produttiva mondiale per le scarpe da ginnastica dell’americana Nike sia perché dopo la Cina è di fatto il secondo principale esportatore di merce in container verso gli USA.
Anche l’India è uno dei candidati destinati a capitalizzare le opportunità create dalla stretta commerciale. Il paese, colpito da dazi del 26%, sta trattando attivamente con Trump per chiudere la partita quanto prima possibile.
Sul Messico va fatto invece un ragionamento a parte: il Paese centro-americano ha perso gran parte del suo vantaggio competitivo a causa dei dazi globali del 25% su acciaio e alluminio, ma la maggior parte dei suoi scambi commerciali con l’America rimane esente dalle tariffe daziarie. Il Paese potrebbe dunque continuare ad essere una meta appetibile per i produttori, soprattutto cinesi.
Quanto alla Cina, il presidente Xi Jinping dovrà giocoforza ridisegnare la mappa delle relazioni commerciali del Paese. “Pechino si dovrà necessariamente rivolgere al Sud-est asiatico, all’Africa o all’Europa, per sostituire le importazioni statunitensi. L’altra strada da percorrere è quella dello stimolo dei consumi interni, soprattutto per prodotti come l’elettronica, i veicoli e gli elettrodomestici. Sicuramente, la Repubblica Popolare Cinese proverà a ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni di merce a basso valore aggiunto, andando ad investire di più in ricerca, sviluppo e innovazione”.
E gli altri Paesi? Come si comporteranno? L’analista di MDS Transmodal si dice convinta che diversi Stati finiranno con il rivalutare la possibilità di affidarsi a partner commerciali lontani o politicamente instabili. “Possibile prenda slancio una nuova tendenza al reshoring delle catene produttive, da favorire attraverso la stipula di accordi commerciali ad hoc” ipotizza.
Molti Paesi vorranno sostanzialmente affermare un maggiore controllo su settori considerati strategici, come i semiconduttori, le tecnologie verdi e la produzione legata alla difesa, “ma è probabile che alla fine puntino a trovare un equilibrio tra un tipo di protezionismo strategico e il mantenimento del libero scambio per la maggior parte di questi prodotti” precisa.
Per concludere: “La nuova guerra commerciale bilaterale avrà effetti globali, soprattutto in un mondo interconnesso. La Cina si adatterà, anche se non senza difficoltà, modificando sia le catene di approvvigionamento che le destinazioni delle esportazioni. Altri Paesi potrebbero adottare un approccio più strategico, non necessariamente totalmente protezionistico, e puntare sull’ampliamento delle proprie catena di fornitura”.