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Interventi

Dopo la decisione di Bruxelles

Come ripararsi dalla valanga

di Marco Casale

La palla di neve che rischia di trasformarsi in una slavina?  La valanga, in realtà, c’è già stata.

La felice metafora con la quale l’avvocato Francesco Munari ha denunciato sul Themeditelegraph la preoccupazione per la mannaia europea che starebbe per calare sulle banchine italiane e che vorrebbe costringere le Authority a pagare le tasse sui ricavi da canoni demaniali, descrive una situazione che in molti considerano superata se non anacronistica. La decisione della Commissione è infatti già scritta da gennaio scorso.

Come sappiamo, all’inizio dell’anno l’UE aveva proposto, in due decisioni distinte, che l’Italia e la Spagna conformassero i rispettivi sistemi di tassazione dei porti alle norme in materia di aiuti di Stato. Mentre Madrid si è adeguata alle richieste di Bruxelles, il Governo italiano ha continuato a difendere ad oltranza il proprio modello di governance, contando sulla possibilità di procrastinare la data di apertura della procedura di infrazione minacciata dall’Ue in caso di inadempimento.

È indubbio che la DG Competition sia ormai convintamente orientata a considerare le Autorità Portuali soggetti esercenti attività di impresa (ai sensi degli artt. 101 e 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) oltre che funzioni autoritative. Il medesimo orientamento, poi, è già stato espresso per tutti gli altri Paesi europei con legislazione simile a quella italiana.

La scelta del ministro Paola De Micheli di pensare a una riforma che porti a una doppia contabilità appare quindi oggi più come una necessità dettata dal tentativo di evitare l’ormai prossima procedura di infrazione che non come una misura ponderata, dettata dall’opportunità – secondo molti legittima – di dotare il sistema portuale nazionale di nuovi strumenti di agibilità decisionale.

Ha ragione da vendere chi dice (vedi Gallotti in un recente articolo apparso su il Secolo XIX) che la manovra del doppio regime di contabilità potrebbe scaricarsi sulle imprese terminalistiche (a cui verrebbe addebitata l’Iva da pagare sulle concessioni), ma è anche vero che nessuno sino ad oggi si è stracciato le vesti per impedire che ciò avvenisse, soprattutto le imprese, che nel frattempo, non pare siano mai intervenute nel procedimento davanti alla DG Competition.

In materia di aiuti di Stato, le imprese e le loro rappresentanze, oltre che le amministrazioni pubbliche interessate sarebbero state legittimate eccome a intervenire nella procedura. Questo avrebbero dovuto fare Confetra, Spediporto e le AdSP se davvero avessero voluto convincere i funzionari dell’UE ad accettare la tesi della compatibilità tra finanziamenti pubblici alle infrastrutture e la normativa sugli aiuti di Stato. Avrebbero potuto farlo senza strepiti e polemiche, con l’obiettivo della cooperazione leale nella corretta interpretazione dell’art. 107 del TFUE.

Se il ragionamento dell’UE venisse portato alle estreme conseguenze ed esteso ad altri ambiti, se cioè ogni iniziativa economica venisse qualificata come attività di impresa, un domani a pagare dazio non sarebbero soltanto i porti ma anche i Comuni, che si troverebbero a essere tassati per ciò che riscuotono dall’uso degli spazi pubblici o dalla tassa di soggiorno per i turisti.

La verità è che i porti italiani sono già stati travolti dalla valanga di Bruxelles: affannarsi per salvarli dal loro destino rischia di rivelarsi a questo punto una scelta tardiva. Forse occorrerebbe fare di necessità virtù e trasformare quella che oggi appare come una mera riforma contabile in qualcosa di più organico, se non altro perché le Port Authority operano già in un regime di doppia contabilità, pagando le tasse sulle partecipazioni societarie e sulle modeste attività commerciali che svolgono in area non demaniale (canoni di affitto per immobili).

Sul tavolo c’è ad esempio l’idea del presidente dell’AdSP del Mar Ligure Occidentale, Paolo Emilio Signorini, che proprio su Port News aveva chiesto di definire un modello di gestione che consentisse alle AdSP di operare in deroga a determinati provvedimenti di carattere generale che oggi ne condizionano l’attività di ente pubblico (il riferimento è al Dlgs 165 del 2001, al cosiddetto Testo unico sulle partecipate e ad alcuni vincoli presenti nel codice degli appalti).

A meno che non si voglia impugnare la ormai prossima procedura di infrazione davanti alla Corte di Giustizia di Europa (mettendo in evidenza il fatto che le AdSP sono una diretta emanazione dello Stato), l’auspicabile riforma in chiave corporativa, sulla falsa riga del modello di impresa, potrebbe insomma essere una via da perseguire convintamente, al di là delle polemiche sui giornali. Quello che non si può più continuare a fare è scavare trincee in difesa di un passato ormai perduto.

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