«Il vero pericolo per i porti italiani? Arriva da loro stessi e non dalla Via della Seta, che può essere una reale opportunità di sviluppo sia sul lato terra che su quello marittimo». È quasi alla fine dell’intervista che Cesare d’Amico, amministratore delegato dell’omonimo gruppo, si lascia andare a una riflessione non banale sui mali della portualità italiana.
«Gli scali marittimi nazionali – spiega – rischiano di essere messi al margine dalle nuove dinamiche della competizione globale. L’unica ancora di salvezza è rappresentata dalla possibilità che il Paese si doti di un vero Piano dei Porti attraverso il quale concentrare le scarse risorse disponibili su pochi sistemi portuali ovvero su quelli che riescono a risultare più competitivi nell’ambito del panorama internazionale».
D’Amico guida uno dei gruppi leader nel trasporto marittimo nei settori dry cargo e product tankers. La sua visione del sistema Paese è chiara e non ammette compromessi al ribasso o facili soluzioni sviluppate a tavolino senza una qualche aderenza alla realtà: «Le scelte campanilistiche – dice – hanno quasi sempre avuto in passato ricadute negative sul tessuto economico del Paese».
Non a caso cita Gioia Tauro: «L’ho visto nascere, quel porto. Non capisco come sia stato possibile anche soltanto concepire uno scalo marititmo di questo tipo senza prima aver realizzato alle sue spalle una adeguata infrastruttura ferroviaria». La fine cui è andato incontro lo scalo calabrese è nota a tutti: «Legato esclusivamente al transhipment e privo delle necessarie connessioni viarie, quella infrastruttura si è praticamente condannata non avendo potuto continuare a svilupparsi».
Gli insegnamenti che vanno tratti da questa esperienza sono chiari: «Niente deve essere lasciato andare al caso, serve un business plan a livello nazionale fondato su solide analisi di traffico e di tipo macroeconomico. Serve un Piano dei Porti che abbia il coraggio di puntare su due, tre sistemi portuali come mega porti». Questo non vuol dire che gli altri porti debbano sparire: «Vanno però fissate delle priorità. È venuto il momento di fare delle scelte e vorrei sperare che non debbano essere i miei nipoti a vederne i frutti».
Cesare d’Amico avverte: «Mentre noi cincischiamo gli altri si muovono». Anche il mercato del dry bulk, uno dei due core business del gruppo, ha subìto nel recente passato mutevoli andamenti e oggi sembra stia imboccando finalmente la via della ripresa: «Gli scambi sulle tradizionali direttrici delle rinfuse solide stanno crescendo, in più il superamento della condizione dell’oversupply sta consentendo al settore di traguardare nuovi obiettivi di crescita per il futuro. Il 2018 si chiuderà con un order book al livello più basso degli ultimi 15 anni e questo dato sta portando i noli a livelli più che accettabili».
Non solo: «La Cina è tornata a importare sia carbone che minerale di ferro e sta sostenendo la forte domanda di mercato». L’India invece non ha fatto la propria parte quando si pensava che avrebbe sostituito l’impero del dragone come motore dell’economia mondiale. «In passato si riteneva che Mumbai avrebbe potuto addirittura sostituire Pechino, ma non è stato così, almeno fino ad adesso».
La prospettiva per il futuro però sta diventando incoraggiante e vedrà l’India come grande importatore di energia. Nel frattempo la Cina sta continuando a importare tantissimo e punta sulle unità di grandi dimensioni, dalle navi Panamax alle Cape: «La Repubblica Popolare Cinese – afferma d’Amico – ha un ruolo condizionante anche nell’industria navalmeccanica, la razionalizzazione che si è compiuta all’interno del settore cantieristico in questi ultimi anni, con la chiusura di medi e piccoli cantieri, ha contribuito alla cancellazione di molti ordinativi di navi, limitando anche oggi eventuali nuovi ordini e spingendo cosi verso un riequilibrio tra domanda e offerta».
Il mercato delle rinfuse liquide non sta dando invece le medesime soddisfazioni: «Il mercato nel settore delle products tankers è ancora sotto pressione: nel liquid bulk la domanda di trasporto di prodotti raffinati è stata inferiore alle aspettative e in più abbiamo avuto un over tonnage di navi di dimensioni importanti». Per il futuro sono previste però delle schiarite, specialmente nel medio periodo: «Presto ci troveremo a vivere in un nuovo mondo. L’entrata in vigore, a partire dall’1 gennaio del 2020, del sulphur cap sarà una delle novità più importanti degli ultimi anni».
Il limite dello 0,5% al contenuto di zolfo nelle emissioni delle navi obbligherà però molti armatori a sostenere onerosi investimenti: «Già nel 2014-15 abbiamo lanciato come gruppo un importante piano di investimenti ordinando la consegna di navi di ultima generazione di tipo ECO. Le nostre navi hanno di fatto già oggi consumi contenuti. L’installazione di scrubber sarà limitata solo alle unità con tonnellaggio superiore a 85.000 dwt poiché è la soluzione costo/beneficio con il maggiore effetto. Infatti non possiamo dimenticare che lo scrubber può avere un costo che varia dai 2 ai 5 milioni di dollari sulle unità più grandi e trova quindi la sua giustificazione economica con le navi dal consumo più alto, permettendo di ammortizzare il costo in un periodo più breve».
Nonostante le varie criticità, i sistemi per il lavaggio dei fumi consentiranno però agli armatori di essere compliant con la nuova regolamentazione IMO pur continuando a utilizzare il tradizionale heavy fuel oil: «Nell’immediato si tratta della soluzione più conveniente perché permetterà agli armatori con grandi navi di tipo VLCC, Capesize o Post Panamax già vecchie o con qualche anno sulle spalle, di essere più competitivi rispetto a chi dovrà invece acquistare direttamente sul mercato il nuovo low sulphur fuel». Per d’Amico queste marmitte catalitiche avranno però una vita molto più breve rispetto a quella di una nave, e saranno pertanto necessarie in corso d’opera attività di manutenzione ordinaria e straordinaria di un certo rilievo.
Scrubber o non scrubber, una evidenza salta agli occhi fin da subito: «È scontato che nel giro di qualche anno l’industria della raffinazione sarà presto in grado di offrire il carburante a basso contenuto zolfo in qualunque parte del mondo, in qualunque porto. Nel corso degli anni il prezzo del carburante a basso contenuto di zolfo diventerà quindi più competitivo, rendendo sempre meno conveniente lo heavy fuel oil. E quindi ritengo che anche gli scrubber negli anni possano essere sempre meno convenienti da installare».
D’Amico ritiene infine non del tutto peregrina, anche se chiaramente provocatoria, la proposta nel tempo formulata da alcuni armatori di ricorrere allo slow steaming per ridurre le emissioni permettendo così un aumento della necessità di stiva. «L’idea è giusta anche se difficilmente applicabile. Oltre a ridurre le emissioni lo slow steaming permetterebbe di impiegare più navi in contemporanea e dunque di tenere sotto controllo il problema dell’overcapacity».