Brano tratto da “Livorno Medicea” (Editrice Giardini, 1970)
Il terzo granduca di Toscana non era tempra d’uomo da perdersi d’animo di fronte ai primi insuccessi materiali: Livorno e la Toscana dovevano possedere il loro porto, e se non era possibile costruirlo alla torre del Fanale lo si doveva creare altrove.
Alla fine del secolo XVI – dicono i riferimenti documentari – Livorno sembrava trasformata in una grande officina di lavoro; l’attività costruttiva ferveva nella Fortezza Vecchia (sopraelevazione di un piano del quartiere di Cosimo I), nel consolidamento delle mura civiche, ma in particolar modo nella zona della Darsena già detta dai genovesi “il Pamiglione” e da loro sistemata a piccolo porto. Qui, infatti, doveva realizzarsi ora il primo vero e proprio scalo commerciale marittimo livornese scavando una seconda darsena da congiungersi con quella già esistente. L’impresa non era troppo agevole poiché il terreno si presentava acquitrinoso, impraticabile, di difficile escavazione e, ad ogni modo, era necessario anzitutto il suo prosciugamento. Manoscritti del tempo descrivono con interessanti dettagli la creazione di questa nuova darsena ponendone in rilievo la capacità recettiva e la futura accresciuta funzione portuale-economica, una volta congiunta con l’antico “Pamiglione”.
Sebbene in questo tempo (anno 1591) l’Italia e alcuni paesi d’Europa fossero funestati da calamità pandemiche, Livorno tuttavia ne fu risparmiata sicché i lavori per la messa in opera del nuovo programma portuale venivano senza indugio iniziati e in pochi giorni condotti a termine con un apparato imponente di maestranze e di strumenti. Consiglieri e collaboratori del piano portuale ferdinandeo furono: il principe Don Giovanni dei Medici, Antonio Martelli, Francesco Barbolani da Montauto, Giovanni Manoli Volterra capitano della Fortezza Vecchia, giusdicente di Livorno e delle sue rocche, Bernardo Buontalenti, Vincenzo Bonanni, Alessandro Pieroni, Sebastiano Balbiani ed altri rinomati architetti. Il cavaliere Antonio Martuelli fu creato soprintendente edile della città e del nuovo costruendo scalo marittimo.
Il 9 febbraio dell’anno 1591 – mentre la Granduchessa Cristina di Lorena, sorella del cardinale Carlo e consorte del Granduca Ferdinando I, compariva col seguito di corte sul torrione cosiddetto “della Nespola” prospiciente la zona nella quale si dovevano iniziare i lavori di escavazione sotto la personale sorveglianza dello stesso Granduca – ebbero principio i lavori con grande apparato coreografico. Fra le descrizioni che illustrano questa impresa medicea – impresa senza dubbio colossale per il tempo in cui veniva effettuata – menzioneremo una interessantissima lettera di un patrizio fiorentino, Giovanni Rondinelli, al surriferito Cardinale di Lorena. La descrizione circostanziata fatta dal Rondinelli è assai istruttiva, sia per la conoscenza delle peculiari condizioni topografiche di questa zona livornese da prosciugare e da scavare, sia per la tecnica strumentale messa in opera.
Ben più di mille e cinquecento maestranze si trovavano sul posto lavorando a turno giorno e notte. Per gli ordigni adoperati in tale circostanza, lasciamo la parola allo stesso Rondinelli che così scrive: «Gli strumenti che si adoperavano a cavar l’acqua erano quelli che chiamano trombe lunghe, parte ritte e parte a giacere, di numero sedici, e ciascuna di esse da sedici uomini tirata. Poi mezze ruote le quali essendo due, la prima con quattro e l’altra con sei trombe andavano continuamente lavorando. Vi aveva oltre ciò venti altri strumenti detti cicogne, e ciascuno d’essi aveva cinque uomini e altre tante bilancie quadre con lo stesso numero d’uomini, e tenevano intorno a barili cinque d’acqua per ciascheduna. Buglioli col manico lungo aveva intorno a cinquecento. Tutti questi strumenti ponevano l’acqua nelle docce ed esse, passando sopra le casse, di poi le rovesciavano in mare».
Dentro il termine cinque giorni, e nella sua prima fase creatrice, il lavoro era compiuto: disciplina ferrea quasi da “lavori forzati” e particolare tecnica idraulica avevano superato ogni aspettativa. Il cronista Santelli dice che dal fondo di questa darsena furono «cavati anche gli scogli», cosa che non riuscì sotto la darsena della Fortezza e che «non s’era giammai praticata»; avverte poi che il torrione della Nespola fu poco dopo demolito. Il Vivoli a sua volta aggiunge che si realizzò un bacino per più di sessanta grosse galere oltre ad un numero considerevole di altre minori imbarcazioni.
A questo punto è doveroso un atto di giustizia e di chiarificazione storica. Deliberatamente il Granduca Ferdinando non fa mai cenno, in tema di urbanistica livornese, all’opera del fratello Francesco in quanto nell’anno 1587, ossia alla morte di lui, il perimetro murario della nuova città di Livorno era compiuto, salvo ulteriori assestamenti e riempimenti di baluardi. Ma il Rondinelli, nella propria lettera al Cardinale di Lorena dice e scrive senza sottintesi: «Ferdinandus Medices Dux Etruriae Liburno oppido ampliore murorum ambitu primum a Francisco fratre munito». Dunque: ampliamento ferdinandeo, e sta bene, ma ampliamento di un complesso murario giù costruito, e costruito dal fratello Granduca Francesco, e non come qualcuno con disinvolta ignoranza ha scritto essere nel 1587 appena costruito un baluardo, quello cioè dove monsignor Toso officiò la cerimonia solenne per la posa della prima pietra civica livornese, il 28 marzo 1577. Documento ufficiale questo del Rondinelli, e non chiacchiere pubblicitarie. E passiamo ad altro.
Gioia da una parte per la realizzazione, finalmente, di una base navale apprezzabile in campo militare e commerciale; dolore da un’altra perché nello stesso anno 1591 la peste bubbonica fece la sua comparsa anche in Toscana. Provvidenze profilattiche non mancarono in Livorno che tuttavia non ebbe molto a soffrire; e neppure mancarono provvidenze di carattere alimentare per fare fronte ad una incipiente, spaventosa carestia. Il Granduca Ferdinando, pur assillato da un marasma sanitario e da seria difficoltà di approvvigionamenti, non perdette tempo in chiacchiere consultive e, da uomo pratico quale era sempre stato, inviò nei porti di Danzica, di Amburgo, di Lubecca, di Amsterdam, che erano allora i primi granai d’Europa, i suoi galeoni e le sue navi da carico in numero di ventidue, per i necessari rifornimenti. Questi poterono effettuarsi con sollecitudine ed efficacia quantitativa di merce imbarcata, come ne fa testimonianza anche lo stesso Rondinelli; infatti poterono scaricarsi a Livorno 213.060 sacca di grano e 112.380 sacca di segale. Un provvedimento così sollecito in un momento tanto calamitoso doveva non soltanto recare sollievo alla Toscana ma anche ad altre regioni d’Italia maggiormente colpite dalla peste e da penurie alimentari mediante una distribuzione di cereali generosamente comprensiva. E così fino da questo momento la funzione economica portuale livornese si delinea non soltanto con carattere regionale ma anche nazionale e internazionale.
Penetrando con maggiore intuito ermeneutico nella politica estera ferdinandea è facile comprenderne le mire espansionistiche commerciali marittime, in clima di accorto affarismo. Ma occorreva popolare Livorno incrementandone le provenienze d’oltre mare, e ciò non fu difficile dati i tempi burrascosi. Mentre, infatti, i popoli d’Europa cristiani si dilaniavano in lotte religiose, in guerre cruente di predominio politico-militare, nel tempo stesso in cui l’onda impetuosa dell’Islamismo turco-bérbero minacciava di travolgerli, il Granduca di Toscana Ferdinando I con abilità diplomatica riusciva a mantenere eccellenti relazioni con tutti gli Stati d’Europa e soprattutto a mantenersi in perfetta armonia colla politica vaticana.
Costruita la “Grande Darsena” si pensò alla sistemazione del piano regolatore urbanistico. Il ritmo ora impresso ai traffici da e per il nuovo scalo di Livorno si accelerava considerevolmente, e la nuova darsena era oggetto di ammirazione da parte dei forestieri, di compiacimento e di orgoglio da parte del sovrano mediceo realizzatore. Dai riferimenti documentari del tempo è facile comprendere come l’aumentata affluenza di naviglio estero mettesse a dura prova i nervi dei funzionari della “Bocca”; le magistrali al Governo (Sanità Marittima) ne fanno testimonianza. Livorno tuttavia era scarso di abitanti: bisognava, dunque, incrementarne la consistenza demografica insidiata anche in questo tempo da un clima non sano. Ebbene, con privilegi ed esenzioni tributarie per chi venisse a stabilirsi a Livorno, si provvide al necessario popolamento cittadino, e primi immigrati furono naturalmente mercanti e marinai; più tardi arrivarono anche elementi non provvisti di carte del tutto in regola.